Le vulgari elegantie di messer Nicolao Liburnio. Colophon: Impresse in Vinegia nelle case d'Aldo Romano & d'Andrea Asolano suo suocero, 1521 del mese di giugno

Autore: LIBURNIO, Niccolò (1474-1557)

Tipografo: heirs of Aldus Manutius and Andrea

Dati tipografici:  June 1521


8vo (148x95 mm). 64 leaves. Collation: a-h8. Printer's device on title page and at the end. Later stiff vellum, light blue edges (new endleaves, soiled and rubbed). A few marginal annotations. Last leaf slightly soiled and with a few marginal restorations, otherwise a good, clean copy.

First edition, dedicated to Marco Mollino, of one of the very first grammars of the Italian language ever printed, published five years after F. Fortunio's Regole (1516) and three years before P. Bembo's celebrated Prose della volgar lingua (1525).

“One of the remarkable features of Italian literature is that almost from its very beginning it was able to pride itself upon three authors of absolute genius, who have demonstrated in their works, in the most wonderful way, the infinite potentialities of the new language: Dante, Petrarch and Boccaccio, also known as the Tre Corone (‘Three Crowns'). Their importance runs no risk of being overestimated: they exercised a decisive influence on the development of Italian literature and on the language of the following centuries. Their role as author-guide was already very obvious to Humanists and Renaissance men of letters, judging by the ever-increasing interest in their masterpieces and language used therein. One of the first tangible results of this interest is its legacy to lexicography: the first monolingual dictionary of Italian was published in Venice in 1526, with the rather significant title: Le tre fontane di Messer Nicolò Liburnio in tre libri divise, sopra la grammatica, et eloquenza di Dante, Petrarcha, et Boccaccio, which could be translated as ‘The three fountains of Master Nicolo Liburnio, in three volume, following the grammar and eloquence of Dante, Petrarch and Boccaccio'. These three great authors are used as models, in keeping with the position expressed by the lexicographer in one of his previous works, Le vulgari elegantie, in 1521. Liburnio's choice is part of a broader picture, a consequence of the presence of Pietro Bembo in Venice at the beginning of the sixteenth century, and of his collaboration with the Venetian printer Aldo Manuzio […] At this point, it becomes clearer how well Liburnio's dictionary fits into this framework: it too is one of the first concrete results of the respect paid to the ‘Tre Corone', sanctioned by Bembo's theories, although his reserves about Dante are not shared by Liburnio” (P.G. Beltrami & S. Fornara, Italian Historical Dictionaries: From the Accademia della Crusca to the Web, in: “International Journal of Lexicography”, 17/4, 2004, pp. 357-358).

Le vulgari elegantie (Venezia, Eredi Aldo Manuzio - A. Torresano, 1521), in tre libri che affrontano questioni di retorica, ortografia e morfologia, costituiscono il primo di una serie di testi dedicati dal Liburnio a trattazioni grammaticali. Nell'opera la materia retorica resta preponderante su quella grammaticale, quest'ultima svolta senza alcun ordine e sistematicità. Richiamandosi alla perfezione esemplare di Dante, Petrarca e Boccaccio, il Liburnio suggerisce un modello toscano che è sì ispirato ai classici del Trecento, ma aggiornato alla luce dell'indiscutibile uso, invalso in tutta l'Italia, del volgare, da cui scaturiva l'esigenza, avvertita in quegli anni, di stabilire norme ben definite dello scrivere correttamente ed elegantemente in volgare. Il modello di riferimento linguistico proposto dal Liburnio considera le differenze tra toscano trecentesco e moderno e si mostra tollerante nei confronti delle diverse varietà toscane e dell'affioramento di tratti non fiorentini negli scrittori. Ma poste le questioni, interessanti a quella data, dei modelli da imitare, delle differenze fonetiche e morfologiche tra dialetti toscani, della differenza tra lingua della poesia e lingua della prosa, in assenza di ogni tentativo di classificazione dei fenomeni, la trattazione si risolve in serie indefinite di formulari (per l'epistola amorosa, gli affari e le relazioni di corte, di epiteti poetici e di comparazioni). Pur nell'asistematicità dei risultati, va riconosciuto al Liburnio il primato nell'intuizione di svariate problematiche che altri avrebbero dopo di lui sviluppato con mezzi diversi: il Liburnio è per esempio il primo a stilare un elenco nutrito di voci dalle quali si ricava la difformità dell'uso prosastico di Boccaccio da quello poetico di Dante e Petrarca” (S. Mammana, Liburnio, Niccolò, in: “Dizionario biografico degli italiani”, Rome, 2005, vol. 65, s.v.).

“È dubbio che per sé il Liburnio sarebbe giunto a identificare in quel motivo [ossia, quello della vecchia e nuova letteratura volgare, da Dante e Petrarca a Sannazzaro e Bembo] il nucleo, a quella data essenziale, della lingua. Ma era certo, per la difficoltà stessa in cui a ogni passo incespicava nello scrivere quella sua strana lingua, all'erta. E se anche a Venezia altri stimoli non avesse avuto, le Regole del Fortunio dovettero nel 1516 aprirgli gli occhi. Il Liburnio non poteva certo sapere che nel 1509 il Fortunio aveva chiesto il privilegio di stampa per un'opera dedicata non soltanto alle regole ma alle elegantie del volgare. L'opera apparsa nel 1516 conteneva le regole sole. Ma le elegantie di umanistica tradizione erano nella logica delle cose. Nel 1521 il Liburnio pubblicò Le vulgari elegantie. In questa selvetta linguistica è, assai meglio che nelle più tarde Annotazioni del bolognese Achillini, il documento della questione della lingua, quale poteva essere allora discussa nell'ambito e in funzione di una letteratura cortigiana […] Pertanto delle Vulgari elegantie del Liburnio non si può fare a meno. Dall'epistola dedicatoria dell'opera si deduce anzi tutto la fedeltà dell'autore alla tradizione umanistica […] L'uso letterario del volgare dunque resta un divertimento sussidiario e conseguente a una seria e faticosa educazione umanistica. Questo divertimento è giustificato, nell'epistola dedicatoria, non soltanto dall'autorità dei grandi scrittori toscani, ma dal successo anche di scrittori moderni e contemporanei […] Probabilmente, se non ci fossero state di mezzo le Regole del Fortunio, il Liburnio si sarebbe contentato di mettere insieme un formulario retorico. Di fatto le Vulgari elegantie si aprono e chiudono come un formulario, e per questa parte rientrano in una tradizione che fin dal Quattrocento si era costituita a servigio dell'epistolografia umanistica, non soltanto latina ma anche volgare. Per questa parte la novità dell'opera del Liburnio sta in ciò che essa si rivolge al buon ‘secretario o cancelliere' sì, ma alle donne anche, agli amanti, a un suo galante, mondano e finalmente poetico del volgare […] Era insomma l'amoroso e cortigiano volgare proprio, fin dalle origini, del Liburnio. Ma su di esso si era nel frattempo abbattuta l'accetta grammaticale del Fortunio, sfrondandolo risolutamente. La reazione del Liburnio risulta, pur nella sua reticente ambiguità, ben chiara: ‘Leggesi al presente una brieve gramatica vulgare di messer Francesco Fortunio, il quale veramente in picciol campo emmi paruto diligente assai. Ma pure se il prelibato scrittore havesse potuto in più di quattro parti la sua grammatica dividere e con fondata ragione, rimetto al d'altrui giudicio' (23) […] Nelle Vulgari elegantie è il rovescio del vigore filologico del Fortunio. Dice il Liburnio che ‘chi presume in molte cose della vulgar lingua saper assegnare firme ragioni, colui può anco assicurarsi nel sereno della tacita notte poter sanza errore noverare le vaghe stelle dell'alto cielo' (47). Al firmamento della lingua il Liburnio guarda con uno stupore per noi a volte stupefacente. Gli accade per esempio di fissarsi sulla parola scritta avulsa dal suono, su coppie come die e dié, come pie e pié, come entro e entrò. E sempre lo affascina la varietà di forme dal più al meno equivalenti: dietro, adietro, indietro, dirietro, diretro, †drieto, retro. In questa meravigliosa e confusa ricchezza della lingua, unico criterio distintivo è quello fornito dagli autori e per essi dalla diversità dell'uso prosastico e dell'uso poetico. Quanto agli autori è notevole che, sebbene persista, come s'è visto, una generica fiducia nei moderni, esplicitamente è però soltanto addotta l'autorità degli antichi. Nelle Selvette [1513] ancora si incontravano i nomi del Tebaldeo, del Sannazaro, del Bembo. Qui, nelle Vulgari elegantie, solo Dante, il Petrarca e il Boccaccio. Che il silenzio sui moderni sia prudentemente voluto, e non casuale, è dimostrato dal fatto che il Liburnio non esita a nominare anche qui i moderni quando essi siano illustri per altri titoli che di scrittori in volgare: Andrea Navagero (21v.), Aldo Manuzio (39v.), Giovanni Pico (48) e il Pontano (64). Anche il Landino commentatore di Dante è una volta ricordato (31v.), e non si può credere che il Liburnio potesse farne a meno. Certo non poteva assumere di fronte a lui o al Filelfo l'atteggiamento fortemente critico della nuova filologia volgare inaugurata dal Fortunio. Al Landino risale, ed è caratteristico del Liburnio come di ogni altro scrittore cortigiano, il rifiuto, che il Bembo doveva in seguito limitare e motivare ben altrimenti, degli arcaismi: ‘Noi adunque terremo un temperamento certo così nei sensi come nel candore della Thosca lingua percioché gli vocaboli antichi troppo sono insoavi e di vero all'età nostra intolerabili' (16v.). Ma si tratta ormai sempre e soltanto di ‘thosca lingua' […] La testimonianza di uno scrittore come il Liburnio, di quella origine e qualità, e per contro l'assenza, in opera così radicata nella letteratura cortigiana, di ogni riferimento a una lingua illustre, comune e mista, diversa dal toscano, sono a quella data importanti. Ma più importante è a quella data il fatto che già affiorino nelle Vulgari elegantie altre e conseguenti questioni, che il Liburnio aveva certo sentito discutere e di cui aveva colto al volo, bene o male, i termini. La questione anzitutto della differenza tra il toscano vivo e il toscano trecentesco: ‘Io mi son trovato in essa Thoscana, in Lombardia e ne' per aderietro anni lungamente in Roma, dove usando assidove conversationi di mercatanti et gentilhuomini di singular giudicio e doctrina, Pistolesi, Firentini, Lucchesi, Pisani e Sanesi, pigliai qualche notitia in certe particolaritadi della lingua loro, da quai fui avisato della mirabile mutatione di vocaboli dalla età di messer Dante, Petrarca et Boccaccio, insin all'hodierno giorno' (48). Poi la questione delle differenze tra il fiorentino e gli altri dialetti toscani, discussa ivi stesso e nel dialogo che subito segue (48v.-51), fra ‘due notabili e dotti gentiluomini, messer Girolamo Bonvisi da Lucca e messer Andrea Cavalcanti da Firenze', presente il Liburnio a Roma. Su tali questioni, come era da attendersi, il Liburnio non prende partito […] A distanza di pochi anni le questioni serie di cui il Liburnio aveva colto la eco, apparvero a carte scoperte nella riforma ortografica proposta dal Trissino e nelle Prose del Bembo. Il Liburnio era in quel preciso momento al lavoro, sulla linea stessa delle sue Vulgari elegantie, per altra opera che apparve a Venezia nel febbraio del 1526 col titolo Le tre fontane di messer Nicolo Liburnio in tre libbri divise sopra la grammatica et eloquenza di Dante Petrarca e Boccaccio. A confronto delle Vulgari elegantie, salta subito agli occhi che in questa sua nuova opera il Liburnio, gettando di buona o cattiva voglia fuori bordo la zavorra della sua precettistica cortigiana, si era convinto a fidare interamente sui tre grandi del passato” (C. Dionisotti, Niccolò Liburnio e la letteratura cortigiana, in: “Lettere Italiane”, vol. 14, no. 1, 1962, pp. 51-55).

Le vulgari elegantie sono divise in tre libri; ma tale partizione corrisponde assai vagamente ai tre principali gruppi di questioni trattate nel testo (questioni di retorica, di ortografia e di morfologia), così da poter forse cogliere in essa soltanto il vagheggiamento della tripartizione dantesca. La partizione in tre libri de Le vulgari elegantie, infatti, potrebbe esser tolta o modificata senza alcun danno per la intelligenza della materia esposta […] Da un primo esame degli argomenti trattati nei tre libri de Le vulgari elegantie, infatti, risulta chiaramente come siano mescolate la materia retorica e la grammaticale, con preponderanza della prima; anzi, anche nei casi nei quali affronta questioni grammaticali, il Liburnio è pur sempre sollecitato da preoccupazioni retoriche; e la grammatica, così, è posta a servigio della retorica […] Perciò, per concludere, non solo pensiamo di poter far risalire l'impresa grammaticale implicata ne Le vulgari elegantie e ne Le tre fontane alla suggestione esercitata sul Liburnio dalla grammatica del Fortunio, ma possiamo riconnettere alla medesima suggestione la accettazione esplicita ed indiscussa, da parte del Liburnio, sia del canone della regolata ed armonica esemplarità della lingua dei grandi del Trecento, sia della nozione che le lingue, col tempo, si corrompano: l'atteggiamento del Fortunio e del Liburnio, ripreso e ribadito nelle successive e più autorevoli imprese dell'Acharisio, dell'Alunno, del Bembo, dei Deputati alla correzione del Decamerone, e del Cavalier Salviati (per non fare che i nomi maggiori), confluirà infine nell'impresa del Vocabolario della Crusca: tal Vocabolario, infatti, nascerà sotto il segno del fiorentinismo arcaizzante” (G. Presa, Introduzione, in: N. Liburnio, “Le vulgari elegantie, facsimile dell'edizione Aldina del 1521”, Milan, 1966, pp. 10-11 and 17-18).

Niccolò Liburnio was born in Friuli of humble origins as he himself pointed to in several places of his works. He studied in Venice, where he had as teacher Giovanni Negro, and then in Milan under Jacopo Antiquari. He was also a pupil of two other famous humanists, Giovanni Battista Cipelli, known as Battista Egnazio and the scholar Marcus Musurus. He early embraced the priesthood and became chaplain of the condottiere Giovanni Moro in October 1510. In Mantua he was a member of the Academy of St. Peter, where he probably had the opportunity to get in touch with Paolo Giovio, Matteo Bandello, Francesco Dovizi of Bibbiena and Antonio Tebaldeo. He spent about three years in Rome, in the early days of Leo X's pontificate, where he became friends with the Hellenist Janus Lascaris and frequented the circle of Giano Parrasio. In the dedication Le Tre fontane Liburnio mentions that he was in the service of Marino Grimani, patriarch of Aquileia. In the preface to Occurrenze humane (1546), he also recalls that he was for a while secretary to don Miguel de Silva, bishop of Viseu and future cardinal of Portugal and furthermore mentions his many trips to France, England, Flanders, Syria and Bruges, where he met for the second time Erasmus of Rotterdam, whom he first encountered in Venice in 1508, when Liburnio was corrector for the printer Aldo Manuzio. In the same pages he informs the reader that he has also been at the service of various Venetian patricians: Girolamo Donà, Girolamo Pesaro and Giovanni Pisani, for the son of whom, Luigi, future bishop of Padua, he was tutor for eight years. In the last years of his life he was canon of the Basilica of San Marco (cf. L. Peirone, Introduzione, in: N. Liburnio, “Le occorrenze umane”, Milan, 1970, pp. 5-18).

Edit 16, CNCE37646; Renouard, 92.11; JRL, R213715; UCLA, 205; P. Trovato, Storia della lingua italiana. Il primo Cinquecento, Bologna, 1994, p. 268.


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