“Le donne sole fanno prodigi, non me ne meraviglio: sono creature fra l'angiolo e l'uomo” (incipit)
Bifolio (mm. 188x122) vergato su tre della quattro facciate e firmato “Silvio”. Tracce di piegatura, macchia al margine esterno della seconda carta, qualche fioritura, ma ben conservata.
La destinataria è indicata solo come “Marchesina adorabile” nell'intestazione e come “ottima Felicia” nel corpo della lettera, ma si tratta indiscutibilmente della marchesa Felicia Giovio Porro, legata all'avvocato Abbondio Perpenti, che viene anch'egli citato nella lettera per alcuni versi da lui scritti che la marchesa ha inviato al Pellico e che questi giudica di buona fattura.
“Già dal 1819 accanto a lei [la marchesa Felicia Giovio Porro (1781-1849)] vi era l'avvocato Abbondio Perpenti, che la sposerà nel 1822, anch'egli letterato, traduttore e all'occasione poeta, prima di scegliere l'impiego di una carriera giuridica. Un ritratto a olio del 1815, conservato a Palazzo Volpi di Como, ritrae la marchesa a tavolino languidamente sorpresa mentre era intenta a leggere un libro, con altri posati sullo scrittoio, perché, in effetti, la vedova del marchese Paolo Innocenzo Porro Odescalchi, sposato nel 1801, si interessava di poesia. I rapporti con il parente Luigi Porro Lambertenghi le facilitarono la conoscenza e la frequentazione di alcuni letterati, del Pellico, che presso il Porro fu istitutore, e poi di Giuseppe Montani quando a inizio del 1820 si trasferì per ricoprire l'incarico lasciato vacante dall'amico. Felicia, dal canto suo, in quanto primogenita del conte Giambattista Giovio, aveva avuto, dieci anni prima, come tutta la famiglia, una intensa frequentazione anche epistolare con il Foscolo” (L. Danzi, Nota su Francesco Longhena, in: “Archivio Storico Lombardo”, serie 12ma, vol. XXIII, anno CXLIV, Milano, 2018, pp. 93-94).
Pellico prosegue poi sostenendo impossibile dedicarsi alla poesia a Milano, definita “turbine vorticoso che aggira gli uomini senza lasciarli in pace mai”, e rimpiangendo la tranquillità della campagna e di Grumello in particolare. Porge quindi alla marchesa e al di lei figlio Galeazzo i saluti suoi e quelli del cognato e dei suoi figli, di cui Pellico era precettore.
Silvio Pellico nacque a Saluzzo il 24 giugno 1789. Dopo i primi studi compiuti a Pinerolo e Torino, fu inviato dai genitori a Lione per fare pratica nel settore commerciale. Al rientro in Italia, nel 1809, si stabilì con la famiglia a Milano, dove trovò un impiego come insegnante di francese presso il collegio militare e cominciò a frequentare Vincenzo Monti e Ugo Foscolo, legandosi in particolare con quest'ultimo. Cominciò a scrivere tragedie in versi e nel 1815 a Milano venne rappresentata per la prima volta la sua tragedia Francesca da Rimini, reinterpretazione dell'episodio dantesco alla luce delle nuove influenze romantiche e risorgimentali. Nel 1816 si trasferì ad Arluno vicino Milano, nella casa del conte Luigi Porro Lambertenghi, dove fu istitutore dei figli Domenico e Giulio. Nel 1818 venne fondata la rivista “Il Conciliatore”, di cui Pellico fu redattore e direttore. Arrestato nel 1820 come carbonaro, fu condannato a quindici anni di carcere. Nel 1830, dopo nove anni di reclusione nello Spielberg in Moravia, fu graziato e liberato. Da quel momento visse a Torino, tenendosi lontano dalla politica, come bibliotecario della marchesa di Barolo. Risale al 1832 la pubblicazione della sua opera più celebre, Le mie prigioni, racconto dei duri anni di prigionia. Pellico morì a Torino il 31 gennaio 1854.
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